30 Settembre 2018

La biopsia della prostata consiste nell’asportazione di piccoli frammenti di tessuto, per poterli analizzare. Esistono diverse tecniche, come ci spiega il Prof. De Sio.

Risponde:

Marco De Sio

Direttore U.O. di Urologia Facoltà di Medicina e Chirurgia Università degli studi della Campania “Luigi Vanvitelli”

La biopsia della prostata consiste nell’asportare con un ago alcuni frammenti, dei frustoli di tessuto prostatico. La tecnica può essere effettuata con un duplice accesso, o per via transrettale o attraverso la cute del perineo, e deve essere sempre effettuata sotto un controllo di tipo ecografico con una sonda ecografica non posta sull’addome, ma che è posta per via transanale all’interno del canale rettale perché il retto è in stretto contatto con la superficie posteriore della prostata. Ogni lobo prostatico viene diviso idealmente in almeno sei zone e, per ognuna di esse, viene effettuato il prelievo di un frustolo di tessuto prostatico. Oggi, insieme a questo tipo di tecnica, si associano invece anche delle biopsie mirate in quelle zone che vengono identificate alla risonanza magnetica multiparametrica. L’ideale sarebbe poter andare a fare il prelievo direttamente nel corso della risonanza magnetica, certamente, e fare il minor numero possibile di prelievi per ridurre l’invasività della tecnica; purtroppo ancora non abbiamo delle evidenze che questo sia l’atteggiamento più corretto. È possibile, invece, nel corso della ecografia transrettale, memorizzare all’interno dell’ecografo quelle che sono le immagini che risultano dalla risonanza magnetica multiparametrica, quindi effettuare la fusione delle due immagini e effettuare, nel corso dell’ecografia, la puntura su quello che è il nodulo sospetto alla risonanza e, infatti, la tecnica si chiama proprio biopsia di fusione.

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